| Dibattito  
              
              
              
               Riflessioni autunnali 
 Per una ripresa della battaglia  ideologica e culturale contro l’attuale ordine di cose. Contro la  barbarie del sistema economico e sociale.             Mi ha sempre “intrigato” la  capacità della classe dominante di usare, attraverso i propri  mentori o i propri lacchè, tutto ed il contrario di tutto al fine di  giustificare la propria ideologia e perpetuare la propria supremazia  economica e sociale.             Gli esempi e le circostanze sono  innumerevoli.             Dall’uso commerciale dell’icona del  “Che”, trasformato quasi subito dopo la sua cattura ed uccisione  in Bolivia sul finire degli anni 60 ( 9 ottobre 1967) da  rivoluzionario anticapitalista, eroe e martire del proletariato  internazionale, in un “brand” di moda, al lancio, sempre sul  finire degli anni ’60 ed i primi anni ‘ 70, della sahariana o  dell’eskimo come look delle nuove generazioni ribelli , fino alle  presunte riflessioni teoriche dei primi anni ‘80/’90 da parte del  mainstream economico sulle virtù propedeutiche e progressive del  “piccolo e bello”, della necessaria ed oggettiva prassi del  federalismo fiscale e politico, al rinato interesse di un  interventismo e centralismo statalista nella situazione economica e  sociale dell’oggi.             In questo uso disinvolto e un po’  truffaldino di trasformare qualsiasi pratica, riflessione, lessici,  movimenti, modi di fare, seppur inizialmente radicali o di rottura  con la morale e cultura dominante, in nuovi “brand” più o meno  commerciabili , si è arrivati persino, (incredibile, ma vero), ad  invocare il buon vecchio tempo andato in cui il “conflitto sociale”  era presente.             In un articolo a firma di Mauro Magatti  sul Corriere della Sera del 23 agosto 2016 dal titolo significativo,  “ La violenza Individuale. Risposta disperata nella società  psicotica” ci si rammarica che “nonostante condizioni economiche  precarie e scarse prospettive per il futuro… non si ha traccia di  un vero conflitto sociale. Al contrario, le cronache sono piene di  episodi violenti legati al terrorismo di matrice islamica, al  femminicidio, alle stragi di singoli uomini in preda alla follia.” L’ assenza, nella struttura sociale  capitalista, di una possibile soluzione sociale equa e dignitosa per  tutti o per lo meno della maggioranza degli uomini e delle nuove  generazioni, una esaltazione costante dell’individualismo, fa sì  che l’inevitabile conflitto si manifesti “in forma molecolare,  episodica, e violenta. Senza un senso né una direzione.”             L’articolista continua argomentando  che tutto ciò è in definitiva il risultato di una costante  stigmatizzazione e critica del conflitto sociale anche quando questo  tenta di manifestarsi attraverso movimenti politici e sociali come la  recente protesta contro la riforma del lavoro in Francia, Occupy Wall  Street a New York o la rivolta dei forconi in Italia. “ Il  conflitto viene rimosso: bisogna che tutto vada bene”.             Di fronte poi agli innumerevoli  attentati terroristici di matrice islamica in Francia ed in Europa,  l’articolista, richiamandosi all’analisi di Olivier Roy (1)  afferma, altrettanto correttamente, che siamo di fronte non tanto  alla radicalizzazione dell’islam ma alla islamizzazione del  radicalismo.             Siamo cioè di fronte a seconde  generazioni che frustrate dalla assenza di mobilità sociale e in  rottura generazionale con i padri e le famiglie di provenienza,  cercano una nuova prospettiva che non può essere più né la cultura  occidentale che li ha condannati nelle periferie e al fondo della  scala sociale né la vecchia cultura e religione dei padri e delle  famiglie musulmane di provenienza.             Dobbiamo quindi considerare che l’ISIS,  creatura endogena americana, come fu Al Qaeda, stimolata e fatta  crescere per gli interessi imperialistici degli USA nel medio  oriente, ha la sua forza non solo nelle armi che Arabia Saudita prima  Turchia e USA dopo gli hanno garantito, ma dal fatto che rappresenta,  agli occhi dei diseredati dell’occidente, una via identitaria di  vendetta sociale e di protagonismo che proprio in mancanza di una  prospettiva sociale, politica collettiva, trova sfogo nel  fondamentalismo religioso, anche se la maggior parte di questi  giovani di seconda generazione sono cresciuti come noi bevendo alcool  e fumando erba o hashish e avendo esperienze di sesso.             Alla lettura di tali argomentazioni,  coerenti e condivisibili all’interno dei nostri semiclandestini  opuscoli o siti on line, ma non nelle pagine del Corriere della Sera,  da sempre espressione della grande borghesia industriale del Nord una  riflessione immediata mi coglie.             Siamo di fronte alla classica  situazione in cui ognuno può dir male della propria famiglia, ma non  accetta nessun commento da altri.             Fuori di metafora, quando affermavamo,  come tutt’oggi affermiamo, che il conflitto sociale è non solo  auspicabile, ma necessario proprio per ridurre la conflittualità  individuale e violenta, così come quando sostenevamo convintamente,  come tutt’oggi sosteniamo, che la lotta di classe, quindi lotta non  “episodica”, non “molecolare” ma collettiva con “un senso  “e “una direzione” (il comunismo libertario) facesse diminuire  gli episodi di violenza individuale, la microcriminalità, finanche  l’alcolismo o il gioco d’azzardo ed incanalasse le forze e le  pratiche della stragrande maggioranza dei lavoratori e della gioventù  in pratiche collettive e solidali, non eravamo affatto, come  tutt’oggi non siamo, per niente vecchi nostalgici, desueti o  anacronistici, ma imperterriti comunisti libertari e rivoluzionari.             Tale approccio e tali convincimenti  sono stati le nostre coordinate a partire dagli anni ‘70/’80  proprio a fronte degli episodi di terrorismo che in Italia si  manifestarono, con prassi e pratiche se non di massa, comunque  sufficientemente diffusi e sostenuti da tra larghi settori giovanili.             Dicevamo che non si trattava di fare  delle “union sacreè ” (basti ricordare qui la tenacia del fronte  della non trattativa durante il rapimento di Aldo Moro o all’origine  la politica di solidarietà nazionale di quegli anni) contro il  terrorismo, ma da parte delle organizzazioni sindacali e politiche  che maggiormente rappresentavano la classe dei lavoratori ed i  bisogni crescenti delle nuove generazioni si sarebbe dovuto alzare il  livello del conflitto per confermare ed allargare le conquiste  operaie e sociali che già dai primi anni ‘70 la borghesia ed il  padronato stavano rimangiando.             Non si fece affatto così, purtroppo.  Anche in quella tragica occasione si “rimosse” il conflitto  “aperto e leale” e “ per molti non rimane (rimase) che la  violenza”.             Quella stagione fu in realtà  caratterizzata da continui arretramenti sociali ed economici,  giustificati dagli stessi gruppi dirigenti della CGIL e dell’allora  P.C.I. ( il più grande partito comunista dell’ Occidente) come  sacrifici necessari “non marginali, ma sostanziali” (2) da parte  dei lavoratori in uno scambio, che si rilevò da subito non  veritiero, fra futuribili maggiori possibilità occupazionali ed  immediati arretramenti sul terreno delle coperture salariali.             Le condizioni sociali dei lavoratori,  delle donne e delle nuove generazioni videro un drastico  ridimensionamento ed i rapporti di forza collettivi fra padronato e  lavoratori, non a caso, si invertirono proprio a partire da quegli  anni.             Similmente, su un altro terreno  classico della classe borghese in tutte le sue latitudini, il più  significativo direi con tutte le sue ricadute e declinazioni  ideologiche, culturali e comportamentali, quale la libera concorrenza  ed del libero mercato, verifichiamo la stessa schizofrenia.             Da una parte si tessono le lodi della  libera concorrenza, del libero mercato all’interno della  competizione economica, la quale oltre a premiare gli imprenditori  più abili ed efficienti garantirebbe, a caduta, anche il bene  collettivo dei lavoratori e della società tutta, dall’altra  entrando nel merito di una questione economica oggi assai importante  e strategica per lo sviluppo dell’economia mondiale quali la  logistica e specificatamente della questione dei Porti, si lamenta la  scarsa o inesistente programmazione da parte dei governi nazionali.             E similmente, come nel caso del  conflitto sociale e delle sua necessaria esplicazione, la critica non  viene da vecchi, canuti ed incorreggibili comunisti, magari  statalisti od ostinati stimatori delle virtù dei piani quinquennali  della vecchia ed ora inesistente Unione Sovietica, ma nientemeno che  dalla Corte dei Conti Europea che, chiamata a dare un giudizio di  merito sull’opportunità di certi finanziamenti UE previsti fra i  maggiori Porti Europei e fra questi quelli Italiani, mette in  evidenza come molti risultino “inefficaci e non sostenibili” (3)             Partendo dalla ineluttabilità del  gigantismo navale per quanto riguarda le navi portacontainers e il  progressivo ritiro dalle tratte delle portacontainers di minori  dimensioni e la necessità di sempre maggiori fondali dove ospitare  queste navi giganti, nelle pagine di questa cospicua relazione,  leggiamo: “Tutti i progetti esaminati  prevedevano lavori per aumentare la profondità dei canali di  accesso, allargare i bacini di manovra/evoluzione, ampliare gli  ormeggi e le aree di stoccaggio, migliorare i collegamenti portuali e  fornire idonee gru e attrezzature di movimentazione per gestire  efficacemente i maggiori volumi di carico previsti.”             L’analisi della Corte ha individuato  14 casi di investimenti simili realizzati in porti limitrofi di uno  stesso sistema portuale: diverse autorità portuali e operatori  portuali avevano investito simultaneamente nell’aumento della  capacità per le infrastrutture e le sovrastrutture di trasbordo,  nonostante fosse già disponibile capacità inutilizzata nei porti  vicini.             Questi investimenti simili sono stati  effettuati anche in porti che servono lo stesso entroterra e situati  nello stesso Stato membro, il che denota uno scarso coordinamento  nella pianificazione della capacità a livello nazionale.             Quando poi la relazione si sofferma  sulle singole aree geografiche, ancora più esplicitamente, leggiamo:  “In Italia, tutti i quattro porti sulla costa nord-occidentale  (Genova, La Spezia, Livorno e Savona) hanno investimenti programmati  o in corso per aumentare del 50 % (ossia di altri 1 800 000 TEU) la  loro capacità combinata (attualmente di 3 730 000 TEU). Tutti questi  porti sono in concorrenza tra loro per lo stesso entroterra: negli  ultimi anni, Savona ha manifestamente perso quote di mercato a favore  di Genova, come avvenuto anche a Livorno, seppure in misura minore.  Inoltre, l’attuale capacità non è pienamente utilizzata: nel  2014, i tassi di utilizzo del terminal container erano circa del 20 %  a Savona, 65 % a Livorno, 74 % a La Spezia e 77 % in Genoa. Non sono  attesi significativi incrementi del traffico negli anni a  venire.”Inoltre “ Un aumento simultaneo della capacità nei porti  vicini comporta inoltre il rischio di una ulteriore guerra dei prezzi  tra questi porti per attrarre i necessari volumi supplementari di  traffico. Di conseguenza a meno che non aumentino i volumi generali  di traffico in tutti i porti vi sarà capacità inutilizzata o  sottoutilizzata mentre nello stesso tempo la redditività dei porti  diminuirà”Infine “L’analisi ha mostrato che ….il declino di  un porto era collegato alla crescita di un porto vicino, spesso più  grande. Inoltre, sono stati individuati significativi spostamenti del  traffico tra porti vicini esaminati nella presente relazione: tra  Salerno e Napoli (Italia) e tra Danzica e Gdynia (Polonia). Non  appena in un porto sono diventate operative nuove infrastrutture, ciò  ha inciso negativamente sui volumi di traffico del porto vicino.”             Come si può facilmente evincere la  critica, seppure non esplicita, è rivolta al sistema economico  capitalistico che, alla ricerca di nuovi e costanti profitti, proprio  sull’altare del libero mercato e della libera concorrenza, non  riesce a programmare i futuri traffici né tanto meno i bisogni reali  , sprecando così ingenti somme di denaro e soprattutto determinando  situazioni di disoccupazione fra i lavoratori.             Non è certo compito della Corte dei  Conti Europea ricordare come questo sistema economico e politico non  è affatto basato sul soddisfacimento dei bisogni, ma  sull’acquisizione del massimo profitto, certo è che ritrovare una  critica così precisa e circostanziata sulla follia e barbarie  dell’attuale sistema economico e sociale attraverso i suoi costanti  sprechi di capitale, compreso quello umano, su relazioni di  istituzioni ufficiali della macchina amministrativa europea fa un  certo effetto.             Ma, a mio parere, la critica maggiore,  seppure implicita, che da questo studio si evince, è rivolta a  quello che da sempre abbiamo chiamato “utopia riformista” .             L’accettazione, da parte delle  organizzazione di resistenza dei lavoratori, in particolare le  organizzazioni sindacali, della logica capitalistica e quindi del  mercato e della stessa concorrenza, attraverso l’adesione acritica  al “mantra” governativo e padronale sulla necessaria maggiore  competitività e produttività, determina che tali organizzazioni si  facciano complici e sudditi degli appetiti dei vari capitalisti,  finendo per sostenere un progetto di sviluppo in contrasto con altri,  determinando quegli sprechi che la relazione metteva in evidenza, ma  soprattutto mettendo così in competizione i lavoratori dei diversi  siti produttivi, fabbriche o porti che siano.             Tale sciagurata politica all’interno  dei Porti ha determinato, oltre alla connivenza con i vari soggetti  industriali e operatori della navigazione i quali per non perdere  traffici e quote di mercato hanno ridotto, sempre più la sicurezza e  le condizioni normative dei lavoratori portuali, la trasformazione  dei Porti Italiani e non solo, da ex roccaforti del movimento operaio  che attraverso le proprie Compagnie Portuali gestivano e  controllavano la manodopera e le condizioni di lavoro di tutto il  ciclo portuale, in siti produttivi dove sempre più è presente  manodopera precaria e sottopagata.             E’ la logica omeopatica del  nazionalismo e dello sciovinismo, che non casualmente oggi rispunta  con tutte i suoi sinistri slogans e pseudo ragioni razziali; ma  occorre ricordare che proprio questa logica nazionalista è stata  responsabile, (non ai tempi dei romani, ma solo 70 anni fa), di ben  due guerre mondiali.             Cristiano Valente 04/10/2016
   Note:             1)Olivier Roy « Le djihadisme est  une révolte générationnelle et nihiliste » LE MONDE  24.11.2015 Tradotto su Internazionale 27novembre 2015             2)Intervista di Scalfari a Lama . La  Repubblica 24/01/1978             3)CORTE DEI CONTI EUROPEA Relazione  speciale n. 23/2016: “ Il trasporto marittimo dell’UE è in  cattive acque: molti investimenti risultano inefficaci e  insostenibili.” su www.eca.europa.eu 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
              
              
              
               
              
              
              
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